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PINACOTECA DI FAENZA
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Ennio Morlotti (Lecco, 1910 - Milano, 1992)

1769

Nudo

30.jpg

pastello ad olio su carta, 1975

cm. 39x46

donazione Bianchedi - Bettoli/ Vallunga, 2010

Il nudo ha mosso l’interesse di Ennio Morlotti sin dagli esordi. Nell’intervista rilasciata a Marco Valsecchi per “Il Tempo” nel febbraio 1964, l’artista disse: "In Cézanne c’è la sacralità della luce che divinizza ogni cosa; io vorrei fare la sacralità della carne". Le serie di pastelli dedicati ai nudi femminili degli anni ’70 è una sorta di canto dolcissimo intorno alla sacralità della carne.

È trascorso più di un decennio dalle prime bagnanti e la scrittura pittorica si è fatta, con lo scorrere del tempo, più nitida e determinata per l’artista. Se prima i corpi erano dissolti nell’umore panico della natura, nel groviglio di verdi umidi e muschiosi, quasi fossero segni tangibili di qualche misteriosa ierofania tellurica, ora la visione appare più chiara e definita. Permane ancora, ma si è fatta più dolce e accogliente, quella visione unitaria di corpo-paesaggio, di compenetrazione materica, di epidermidi soffici e terre ed erbe.

La differenza è che per l’artista ciò che prima era vertigine sublime ora è diventato un’immersione risolta e avvolgente, un abbraccio tranquillo nel quale trovare conforto, corpo da amare che sfugge al possesso e richiede rispetto. Se prima quella sacralità della carne era un canto struggente e disperato, ora, soprattutto nei pastelli, è diventato un’elegia incandescente nella quale scivolare dolcemente. Poichè possiede la velocità del disegno e la luce cromatica del dipinto, ma è organico in qualche modo, tattile e morbido, segue il fremito della pelle del mondo.

Il pastello lascia i contorni deliberatamente irrisolti, non è rigido ma avvolgente e sinuoso, suggerisce con forza una traccia e nello stesso tempo la rende incerta, aperta ad altre ipotesi. Ed è qui che Morlotti raccoglie l’invito in questo Nudo, nel flessuoso aprirsi di rosa carneo, come di corolla di fiore, abbracciandolo con un verde di germoglio, accarezzandola di ocre e di terre, facendoli diventare colline nelle quali scivolare, montagne bellissime dalle quali scrutare l’orizzonte e guardare il cielo.

N. inv. 1769

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