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Venezia
olio su tela, 1950
cm. 30x40
donazione Bianchedi - Bettoli/ Vallunga, 2010
"Venezia stessa è una città tonale, e a uno come me, che ha dipinto paesaggi di Venezia fin da ragazzo, questo rimane conficcato dentro. Del resto il colore, qualsiasi colore, non può non essere anche trasparente, anche quando è intenso, altrimenti diventa una mattonata. Lo sapeva bene anche Matisse".
Venezia e Matisse sono, infatti, i fulcri su cui si basa la creazione di questa veduta di una calle lagunare. Caratterizzata da elementi tipicamente veneziani, quali Il canale, il ponte che l’attraversa e il comignolo svettante nel cielo, sono tutti simboli che fin dall’epoca dei teleri dei Bellini e di Carpaccio immergono il riguardante, senz’ombra di dubbio, nel cuore della “venezianità”.
Si tratta, infatti, di una tipica veduta urbana, senza personaggi e forme viventi, che se da un lato richiama le opere dei grandi vedutisti settecenteschi, dall’altro assorbe le novità della scuola francese dei Fauves per proporre un’idea non consueta per il vedutismo veneto. Eliminando dalla scena qualsiasi riferimento alla vita animata, togliendo quindi al dipinto la valenza di “scena di genere”, sono gli elementi urbanistici stessi a esser resi vitali attraverso il tratto della pennellata ed il colore.
Proprio nel 1950, infatti, Turcato, dopo una lunga formazione lagunare, approda per la prima volta nella capitale della Francia. Qui viene a diretto contatto con le cromie di Matisse. Egli infatti scrive: "Qualcosa di Matisse avevo già visto a Venezia, e a Parigi ho avuto modo di capire pienamente la sua ricchezza […] il disegno deve essere ridotto all’osso, fino a diventare segno, cioè un’altra cosa. Che la visione è un’esperienza complessa di cui si deve restituire un certo amalgama. Matisse vede i particolari coloristici, emotivi, non quelli descrittivi".
La scarnificazione del tratto apre la composizione verso due strade. Nella prima è il colore stesso a unire e disporre prospetticamente le architetture. Nella seconda le singole pennellate conferiscono all’insieme il giusto movimento. Si potrebbe dire, paragonando questo dipinto alla musica, che la “tonalità” è data dalla scelta coloristica, mentre la parte ritmica passa attraverso il segno.
La scena si apre e si muove quasi danzando, in uno spazio dove gli edifici, nelle loro angolazioni acute e ottuse formano accordi contrapposti, uniti solo dal ponte che, per l’appunto, collega armonicamente le due sponde passando sulla zona neutra (azzurro-grigia) del mare/cielo infinito.
"Ci importava capire che il quadro non è basato su una formulazione statica, ma si muove […] attraverso una serie di tensioni. D’altronde questi schemi io li vedevo già da un po’ in certe cose del passato, a Venezia. Pensa ai Tintoretto di San Rocco, in cui tutto è giocato formalmente su costruzioni di movimento".
Il movimento è, quindi, creato attraverso pennellate esatte e sicure come quelle utilizzate nell’arte grafica giapponese, dove l’andamento delle setole produce non solo segni, ma soprattutto emozioni. Come seppe rilevare a suo tempo Lionello Venturi, Turcato e gli artisti italiani dei primissimi anni Cinquanta, non volendo essere né astrattisti né imbrigliati nel puro realismo, "rimangono fedeli al principio, che è essenziale per l’arte moderna, e cioè che una pittura vale anzitutto per le sue linee, per le sue forme e per i suoi colori, per quella coerenza di visione che è l’intima forza di ogni opera d’arte dipinta".
N. inv. 1782