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Natura morta con caraffa e diavoletto
olio su tela, 1941
cm. 40x60
Firmato e datato in basso a sinistra: “Mafai 941"
donazione Bianchedi - Bettoli/ Vallunga, 2010
Il primo aspetto che colpisce in questo dipinto di Mario Mafai è la corposità e compattezza della pittura. Gli elementi sono amalgamati in un insieme unitario dove i piani prospettici risultano quasi annullati. Ne scaturisce una certa inquietudine che accompagna lo sguardo lungo tutta la tela, in uno spazio dove non è presente alcuna soluzione di continuità.
La gamma cromatica tipica del pittore è squadernata attingendo dal repertorio proprio della Scuola di Roma, di cui il nostro fu uno dei capofila.
"Mafai amava i classici ma non voleva somigliare a nessuno. Su riproduzioni in bianco e nero, spiate con assiduità nella Biblioteca di Storia dell' Arte di Palazzo Venezia, dove Antonino Santangelo, il bibliotecario amico, lo faceva entrare dopo la chiusura, aveva amato la pittura del Greco, fra i moderni Chagall e Derain".
Nel 1939, il pittore aveva esposto alla seconda mostra milanese di Corrente le sue prime Fantasie, "Una serie che attraverso strane processioni di maschere e grovigli di nudi, memori di Goya, Ensor e Grosz, preannunciava i massacri della guerra".
La suggestione complessiva nasce da studi e da riflessioni sulla produzione di Francisco Goya, autore molto amato da Mafai durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Già nel 1933 il Nostro aveva dipinto un Nudo a riposo che ritraeva una donna stesa prona su un divano, forse suggestionato dalla Maja desnuda goyana, giratasi sull’altro lato dopo oltre cent’anni di posa immobile. Dal grande pittore spagnolo parrebbe derivare lo sfondo bruno, in cui compaiono colpi di luce giallastra. Caratteristici del ciclo delle Pitture Nere per la Quinta del Sordo (1819-1823), come nel caso del Pellegrinaggio e del Cane interrato nella rena. Allo stesso tempo anche gli oggetti raffigurati si rifanno al mondo dei Capricci e all’ultima produzione goyana.
Nel dipinto di Mafai il corvo, il crocefisso, i fiori, il calice verde, il drappo color sanguigno in primo piano che quasi “sgocciola” fuori dalla tela verso di noi, sono tutti elementi che si vogliono ricollegare alla sontuosità della figurazione barocca della Natura morta. Mafai irride il clima angoscioso della sua stessa Natura morta, seguendo l’ironia dei Capricci di Goya, dove la drammaticità del tema trattato è spesso stemperato da una vena satirica prodotta da elementi tratti dal mondo dei sogni e delle favole.
Il dipinto di Faenza si colloca perfettamente all’interno della produzione mafaiana negli anni delle Fantasie (1939-1943), quando l’angoscia per l’epoca tormentata degli anni mussoliniani e dei primi due anni di guerra non aveva ancora prodotto le atrocità del genocidio. Il 1941 è un anno in cui si poteva sperare ancora in un futuro migliore, irridendo la drammaticità del presente.
N. inv. 1766