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PINACOTECA DI FAENZA
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Giuseppe Migneco (Messina, 1904 - Milano, 1997)

1767

Contadini

25.jpg

olio su tela, 1955-1965 ca.

cm. 54x45

Firmato in basso a destra “Migneco”

donazione Bianchedi - Bettoli/ Vallunga, 2010

Il dipinto di Migneco raffigurante la coppia di contadini con un cesto di fichi ricorda la scena dei Progenitori dell’umanità. Il frutto che la contadina (Eva) porge al marito (Adamo) è infatti un fico.

La donna mostra la bocca aperta per indicare il fatto che ha assaggiato il frutto. Sta dialogando con l’uomo per dirgli di mangiarne a sua volta. Il contadino cinge con il braccio destro la donna, premendole la spalla con la mano: "i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te".

Il tratto delle figure è interamente realizzato con colpi di pennello estremamente vigorosi. Proprio questa tecnica, cifra stilistica del pittore, trae ispirazioni da diverse fonti. Da un lato abbiamo sicuramente la corrente artistica legata al Primitivismo degli anni Dieci-Venti del XX secolo. I visi privi di pupille, le linee decisamente scultoree delle figure umane si rifanno all’arte africana, dalla quale attinsero diversi pittori, uno tra tutti Picasso con le Demoiselles d’Avignon.

Al contempo, proprio come accadde nella corrente del Primitivismo alcuni decenni prima, Migneco si richiama all’arte della xilografia popolare. I tratti profondi, dal solco largo e irregolare, il colore bruno delle linee di contorno, l’approssimazione dei contorni e degli spazi chiusi riportano l’attenzione al mondo della grafica di carattere popolare, circolante ad un livello basso rispetto alla grande grafica d’artista.

È il livello della terra, della campagna, dei contadini, che rappresentano quello strato di popolazione che vive a diretto contatto con la terra, col fango. Proprio il colore del terreno è quello che Migneco utilizza come tono dei contorni. I contadini sono fatti di terra, come l’Adamo biblico fu creato col fango.

Se la materia prima del Progenitore è il fango, cioè di un composto basilare (terra e acqua), anche i suoi discendenti sono fatti di quella materia. Le rughe della pelle sono i segni dell’aratro. Il lavoro forma/forgia l’uomo nel profondo e lo modella.

Per il pittore tra il contadino e la terra c’è identità di materia, per cui i solchi dell’aratura che l’uomo crea nel suolo della Grande Madre non sono altro che incisioni che egli disegna sul suo stesso corpo. È come una mutilazione che rende fertile il terreno.

Sono le striature del sudore della maledizione di Dio. L’uomo lavorando, facendo sforzo, suda. Le gocce scivolano sul volto dei contadini cadendo a terra. Essendo il sudore fatto di acqua e sali minerali (elementi indispensabili per gli esseri viventi), esso rappresenta qualcosa di vivificante per la terra. I segni che piovono dalla fronte dei contadini ricadono sui fichi maturi.

I frutti hanno una colorazione identica a quella del terreno sullo sfondo e a quella di altri solchi e pieghe delle vesti dei contadini (nelle maniche e sul seno della donna). Si ottiene così una perfetta unità tra il terreno, gli uomini e i frutti nati dalla terra attraverso il lavoro nei campi. Si potrebbe quindi parlare di ciclo continuo della vita, proprio come annunciato dalle parole della maledizione dei Progenitori.

Dal punto di vista figurativo, le due figure del dipinto di Migneco sono entrambe rappresentate in primissimo piano, alla stessa altezza, paritetiche. La parte sinistra del contadino si fonde perfettamente con il lato destro della donna.

A chi appartiene quel lembo di stoffa bianca tra i due? È la camicia dell’uomo o la veste della figura femminile? Se guardiamo con attenzione sapremo che è la camicia del primo. Sta di fatto che è una giuntura che accomuna i due lati di un’identica unità: il femminile ed il maschile.

La contadina ha una capigliatura realizzata con lo stesso tratto del cappello di lui; l’uomo ha una bocca disegnata con labbra a cuore, come quelle della compagna. I segni sul volto (sudore/rughe) distinguono i due generi: il volto a sinistra è caratterizzato da una apertura a V rovesciata che ricorda l’utero femminile. La parte centrale del volto dell’uomo è attraversato verticalmente da una lunga linea che manca sul viso femminile, che richiama l’organo genitale maschile.

Sono due simboli ancestrali, resi graficamente con una stilizzazione in perfetta consonanza con lo stile primitivista di Migneco: il maschile e il femminile che fondendosi danno la vita. Il fico è quindi l’unione di questi due poli. Esso è l’emblema della vita, della luce.

Già ai tempi dell’antica Grecia l’albero di fico era la pianta sacra ad Atena, dea della Saggezza (quindi della Conoscenza, anche in termini biblici) e a Dioniso, dio della follia e dell’energia corporea. Atena e Dioniso: nuovamente due poli energetici, come Testa e Corpo. Il fico è anche il simbolo dell’immortalità, dell’asse che collega la Terra al Cielo, della prosperità.

I due contadini di Migneco, figli della stirpe di Adamo ed Eva, costituiti dalla stessa terra e dall’acqua che creò il fango, elemento comune primigenio, rappresentano la perfetta unione delle due forze che creano da sempre il ciclo della vita sulla Terra. Essi sono testimoni del "complicatissimo ‘gioco’ di rimandi che Migneco attua mescolando, in tensione verso la totalità, la parte ed il tutto: con la cronaca dell’individuo convive la storia delle illusioni; la condanna trascina fatalmente con sé un dolore autentico e una cristiana solidarietà".

N. inv. 1767

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